Il fotografo che amava la quiete: Werner Bischof
All’inizio era la spirale, e il fotografo Werner Bischof la cercò scolpendola con la luce nei gusci delle lumache, dando ai propri lavori un carattere metafisico che fu subito paragonato a quello dei quadri di De Chirico.
Dopo la spirale vennero le altre forme, quelle elaborate, ottenute dalla sovrapposizione delle forme astratte (come l’ombra delle liste di una tapparella) su quelle originarie (come il corpo nudo di una donna). Esempio perfetto ne è appunto “Nudo femminile”, del 1942.
“È la forma a fornire l’impulso per la sua creazione”, sosteneva Bischof. E tra tutte le forme, nei suoi scatti è sempre quella originaria a trionfare, a risultare esaltata anche se le altre le si stagliano o proiettano sopra.
Ecco dunque che il corpo della donna, pur segnato dalle ombre della tapparella, proprio perché spezzato nella sua interezza da quelle ombre, risulta ancora più statuario.
Dopo il tempo delle forme, venne quello della guerra, che impresse nella vita e nell’opera di Bischof un cambiamento notevole ed irreversibile.
Dopo la seconda guerra mondiale, la Svizzera, sua terra natia, non aveva subito sconvolgimenti paesaggistici. Bischof decise dunque di lasciarla per viaggiare alla ricerca dei segni della devastazione della guerra sul territorio.
Fotografò un elmetto tedesco distrutto, abbandonato sulle macerie del Reichstag, e le “trummerfrauen”, donne delle macerie sedute tra le mura cadenti.
Ritrasse, a Montecassino, un frate intento a portare in salvo l’ultimo libro di una biblioteca e, sempre in Italia, fotografò un Cristo in croce vestito da biglietti di ex-voto.
Tra le macerie, però, trovò anche lo spiraglio della vita che nonostante tutto continua: ritrasse il girotondo dei bambini di Freiburg, danza di speranza sui resti della città distrutta.
Nel 1949, Bischof lavorò per la prima volta per la Magnum, che gli commissionò un reportage sulla carestia in India.
Il fotografo diede sfoggio della propria maestria nella composizione e nell’uso della luce naturale.
Allo stesso tempo, però, volse la sua sapienza formale tutta all’intento etico di dare voce ai superstiti della carestia. Fotografò corpi e volti fortemente provati, che sembrano urlare e chiedere giustizia. In particolare, lo scatto “Donna anziana con bastone” divenne simbolo delle proteste contro la mancanza di aiuti che permettessero al popolo di risollevarsi dopo la carestia.
Il reportage in India provò Bischof nel profondo, tanto che nel suo lavoro successivo, in Giappone, cercò rifugio nella natura, e in particolare nella bellezza degli alberi, di cui scrisse meravigliato alla moglie, allegandole anche degli schizzi.
La bellezza della natura affascinò e ristorò Bischof, che raccontò anche di aver passato più di un’ora immobile a guardare le strisce di seta che, annodate a delle canne di bambù, si asciugavano al vento. Testimonianza ne è il bellissimo scatto “Asciugatura della seta”.
Nelle foto scattate in questo periodo, per gioco di prospettiva o di accostamento con alberi altissimi, la figura umana appare minuscola in confronto alla natura. Eppure è parte costituente di essa, armoniosamente integrata.
In Giappone, Bischof ritrasse anche la reazione della gente alla prima uscita pubblica dell’imperatore Hirohito dopo la sua dichiarazione di umanità: fino ad allora, gli imperatori giapponesi erano considerati di discendenza divina, onore che rendeva il popolo giapponese superiore a tutti gli altri.
Lasciato il Giappone, Bischof fu costretto a immergersi di nuovo nell’atmosfera che più odiava: quella fragorosa della guerra. Nel 1952 dovette recarsi sull’isola-prigione Geoje-do, dove si intendeva “rieducare” i prigionieri orientali.
Bischof fotografò dei panni stesi sul filo spinato e una grottesca quadriglia in maschera dinanzi a un’altrettanto grottesca riproduzione della statua della libertà.
Le sue foto furono respinte dalla rivista “Life”, che le ritenne troppo banali. Bischof raccontò che sarebbe stato disumano e amorale cercare di fotografare altro: a suo giudizio, l’intera operazione era senza scrupoli e non avrebbe mai dovuto avere luogo.
A sottolineare la sua polemica, ritrasse a Kaesong, in Corea, una folla di fotografi in attesa smaniosa di scattare. “Sul campo di battaglia – raccontò in seguito – l’unico edificio illuminato tra le macerie era l’ufficio stampa”.
Il successivo impiego di Bischof lo portò ad Hong Kong, dove si era ripromesso di fotografare la vita dei rifugiati cinesi. Fu con sorpresa che si accorse che quel modo di vivere aveva qualcosa di affascinante: una sorta di rassegnata quiete, che gli parve un’oasi dopo molto tempo: “Ne ho abbastanza. – aveva dichiarato – Questo continuo andare a caccia di storie è diventato insopportabile. Non fisicamente, ma mentalmente”.
Il desiderio del fotografo divenne così finalmente consapevole: trovare la quiete e ritrarla. Un desiderio coltivato da sempre, a cui però non era mai stato dato nome prima.
Bischof trovò la quiete alle spalle di un manipolo di donne indocinesi intente ad ammirare le opere di un museo. La incontrò seguendo le donne di ritorno dal mercato, in fila indiana sui binari, intente a trasportare sulla testa ceste ricolme di primizie introvabili dalle loro parti.
Anche e soprattutto negli ultimi scatti di Bischof, effettuati in Perù, la ricerca della quiete trovò l’apice della sua espressione. Sulle strade per Cuzco ritrasse uomini e animali in cammino, assorti nel loro pellegrinaggio.
Nel silenzio dell’uomo immerso nella natura, l’unico suono, a dispetto del clangore odioso della guerra, è quello soave del flauto di un ragazzo che, sacco in spalla, cammina accompagnato solo dalla sua musica.
Margherita Restelli
Le fotografie di Werner Bischof sono in mostra al Palazzo Reale di Torino fino al 16 febbraio 2014.
Orari: dal martedì alla domenica 9.30 – 18.30 (ultimo ingresso ore 18). Chiuso il lunedì.
Biglietto intero 8€ (audioguida inclusa), ridotto 5€.