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Posted on Mar 19, 2013 in Bergamo, Borghi, Città | 1 comment

Villaggio Crespi d’Adda: un gioiello patrimonio dell’Unesco

Villaggio Crespi d’Adda: un gioiello patrimonio dell’Unesco

Un rumore basso che emerge dalla nebbia, un calpestio ininterrotto, passi che si muovono all’unisono, poi, alla fine della discesa, la foschia si dirada e nell’aria ripulita compaiono uomini e donne, soprattutto donne, i visi da film neorealista. Indossano quasi tutte grembiuli e zoccoli, anche se è pieno inverno ed è umido e fa un freddo cane. Procedono lungo la strada principale e si dirigono all’ingresso della fabbrica, passano il cancello in ferro battuto, transitano sotto la ciminiera dove campeggia un orologio enorme e spariscono dentro i reparti di filatura.

È così che ci si può immaginare la scena, oggi, seduti al tavolino dell’unico bar aperto. È il 2013, ma potrebbe essere tranquillamente il 1920, a Crespi, un villaggio operaio inaugurato nel 1878, terminato più o meno alla fine degli anni venti, e rimasto immutato fino a oggi, un esempio così perfetto di archeologia industriale che, nel 1995, l’UNESCO ha deciso di inserirlo nella lista dei siti patrimonio dell’umanità.

La famiglia Crespi era originaria di Busto Arsizio e operava nella lavorazione dei tessuti. Verso fine Ottocento, Cristoforo Benigno Crespi individuò una zona al confine tra la provincia di Bergamo e di Milano, proprio dove sono divise dal fiume Adda, comprò i terreni, fece deviare le acque in un canale per sfruttarne la forza motrice ed edificò la prima parte della fabbrica, la filatura.

A dare una svolta decisiva al progetto fu il figlio di Cristoforo, Silvio. Dopo essersi laureato, viaggiò e lavorò in Germania e in Inghilterra. Qui scoprì le Garden Cities, le città giardino, centri urbani dove i luoghi del lavoro e quelli residenziali erano limitrofi. Tornato in Italia, Silvio applicò il prototipo Garden Cities al villaggio fondato dal padre. Chi lavorava nello stabilimento, viveva nelle case del villaggio e aveva diritto a servizi come, ad esempio, la scuola, il dopolavoro, il centro sportivo, le docce pubbliche. Chi arrivava da fuori, come nella scena che ci siamo immaginati in apertura, non aveva tutte queste facilitazioni, eppure dato che non c’era lavoro, veniva allo stabilimento anche a costo di fare chilometri e chilometri di strada a piedi o in bici.

Per capire come è fatto il villaggio Crespi d’Adda, conviene salire al belvedere, proprio di fianco alla casa del parroco e del medico, due figure fondamentali nel tessuto sociale di fine Ottocento. Non a caso le loro abitazioni si trovano nella zona elevata del paese, in posizione dominante. Di più dominante c’è solo il castello, un’enorme costruzione in stile medievale, dimora della famiglia Crespi, con la torre affacciata sulla fabbrica.

Le case operaie erano perfettamente allineate lungo l’asse stradale e tutte avevano un pezzo di terreno intorno che, una volta, era l’orto. Le staccionate era ricavate dai nastri di imballaggio, esempio lungimirante di riciclaggio.

In una zona appartata del villaggio si trovano le case dei capi reparto e ancora oltre le case dei dirigenti. Sono villette in stile novecentesco dal sapore anglosassone.

Crespi è un paese a fondo chiuso e la via principale conduce verso una costruzione che sta a metà tra una piramide e un edificio Maya. La costruzione ha alla base due enormi semicirconferenze che paiono braccia protese, ed è il mausoleo della famiglia Crespi. Sotto, a livello del terreno, come in un cimitero inglese, cippi di pietra segnalano le tombe dei Crespesi.

Quello che balza agli occhi oggi, mentre si cammina tra le vie vuote, è il senso di sospensione soprattutto quando si passa accanto alla fabbrica, ormai dimessa, gli enormi spazi, intravisti attraverso qualche finestra sfondata, vuoti e invasi dall’umidità. Fossimo in un film, adesso partirebbe un flashback, introdotto dal rumore dei pettini dei telai, dal vociare di chi lavora, ma non abbiamo a disposizione effetti speciali, solo parole e con queste vi sproniamo a visitate il villaggio. Qui potrete vivere un’esperienza che crea una sorta di vertigine temporale, un viaggio nel tempo vero e proprio e non virtuale come siamo abituati ai giorni nostri.

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