Basilica di Aquileia: la meraviglia dei mosaici patrimonio dell’Unesco
Di solito le storie, che siano raccontate in un museo, al cinema o alla televisione, ci vengono proposte in spazi circoscritti – tele, schermi, monitor – appesi a una parete. Messi così ci danno modo di osservarli frontalmente e ci permettono di muoverci dentro la loro superficie con lo sguardo, alla ricerca di un dettaglio o dell’elemento che ci intriga di più.
Ma cosa succede se, per una volta, la storie non si presentano davanti ai nostri occhi, ma sotto i nostri piedi – sul pavimento, ad esempio?
Ci sono un paio di libri, che hanno dei passaggi memorabili e che riguardano il percepire attraverso i piedi una città, nel primo caso, il senso del tempo passato, nel secondo.
La prima opera è intitolata Fondamenta degli Incurabili di Josif Brodskij e racconta Venezia da un punto di vista singolare. C’è un passaggio in cui il poeta ci suggerisce come l’onnipresente acqua della laguna metta in discussione il principio d’orizzontalità, e costringa, date le continue variazioni di prospettiva causate dai ponti, dalle pietre non allineate sul terreno, dalla rifrazione della luce sui palazzi a una sorta di precarietà sensoriale, una precarietà che spinge i piedi a diventare non solo mezzo di locomozione, ma organo percettivo, ulteriore spazio sensorio innescato dalla speciale conformazione di Venezia.
Il secondo, fa parte de Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. Nell’ultimo volume del ciclo, Il tempo ritrovato, Marcel inciampa in una lastra del pavimento a Guermantes, uno dei luoghi in cui si svolge la vicenda e questo episodio banale lo riporta a un’esperienza simile quando, a Venezia, stava visitando la basilica di S. Marco. Ecco la citazione “(…) era Venezia, di cui i miei sforzi per descriverla e le sedicenti istantanee scattate dalla mia memoria non m’avevano mai detto niente e che la stessa sensazione provata un tempo su due lastre ineguali del battistero di San Marco m’aveva restituita assieme a tutte le altre sensazioni collegate quel giorno ad essa e rimaste in attesa al loro posto, da cui un’improvvisa combinazione le aveva fatte uscire, nella schiera dei giorni dimenticati.” Il pavimento ha bisogno di un imprevisto – inciampare – per far sì che ci provochi un ricordo, un’impressione che vada a riassemblare, come nel caso di Proust, tutto l’ordine dell’esistenza, là dove il tempo “perduto”, può essere finalmente ritrovato.
Dunque i pavimenti. Bistrattati, trascurati. Siamo sinceri, quando entriamo nelle chiese, ad esempio, i nostri occhi puntano più che altro in su, quasi mai in basso. Sulle pareti, lungo le navate, dentro le cupole, sui cornicioni, eppure ci sono dei pavimenti, lì rasoterra, che talvolta valgono più di ciò che ci si presenta di fronte. Pavimentazioni che reclamano, per una volta, che siano i nostri piedi a comandare e guidarci alla scoperta della meraviglia.
Prendiamo Aquileia, una piccola cittadina in provincia di Udine, che oggi fa 3500 abitanti. Eppure è stata sede di un importante patriarcato, di una delle più grandi diocesi di tutto il Medioevo, con confini che giungevano fino al Danubio.
Com’è giusto che sia per un centro così importante, ad Aquileia si trova una grande basilica patriarcale, con annesso battistero, ricostruita attorno all’anno Mille, in forme romaniche.
Ciò che ci interessa ai fini del discorso fatto fino ad ora è l’incredibile pavimento mosaicato che la ammanta. Si tratta del più grande e meglio conservato mosaico della cristianità, risalente al III secolo dopo Cristo, inserito dall’UNESCO tra i beni Patrimonio dell’Umanità. Sono circa 750 metri quadri di mosaici, che non hanno un motivo decorativo uniforme, ma diviso in diversi tappeti ricchi di soggetti simbolici.
La zona più antica e variegata, l’aula nord, è rappresentata da animali fantastici, piante ed altri soggetti, per lo più estranei alla tradizione cristiana e il cui significato allegorico è sempre risultato di difficile interpretazione. Forse i simboli provenivano dal mondo orientale, dato che Aquileia aveva costanti legami con l’est, soprattutto con Alessandria d’Egitto.
La lettura del mondo narrato non è facile, ma di tutte le interpretazioni date, quella che sembra dare un ordine al tutto sembra essere il testo Pistis Sophia, o Libro del Salvatore, un vangelo gnostico scritto nella seconda metà del III secolo.
Si tratta di materiale di non facile accesso, troppa la distanza tra noi e certe concezioni di quel periodo. Comunque i mosaici rappresenterebbero il percorso dell’anima gnostica per poter ritornare al Padre attraversando il sistema formato da cieli planetari e costellazioni.
Il pavimento dell’Aula Sud, più recente, riporta una notevole scena di Giona, ed è suddiviso in quattro campate con festoni di acanto stilizzato. Qui i mosaici sembrano avere un intento più didattico e voler rappresentare un viaggio dentro i significati religiosi, come se fosse un gigantesco libro aperto sul pavimento, con messaggi facili da assimilare. Appaiono, ad esempio, figure come il Buon Pastore e poi una scena marina, con i pesci, simbolo di Cristo.
Senza dilungarci ulteriormente su questioni interpretative, vi invitiamo a fare una viaggio ad Aquileia dove, per una volta, scoprire il bello e l’incanto dell’arte a filo del terreno, abbassando lo sguardo.